La professoressa Isabella Milani è online

La professoressa Isabella Milani è online
"ISABELLA MILANI" è uno pseudonimo, scelto per tutelare la privacy dei miei alunni, dei loro genitori e dei miei colleghi. In questo modo ciò che descrivo nel blog e nel libro non può essere ricondotto a nessuno.

visite al blog di Isabella Milani dal 1 giugno 2010. Grazie a chi si ferma a leggere!

SCRIVIMI

all'indirizzo

professoressamilani@alice.it

ed esponi il tuo problema. Scrivi tranquillamente, e metti sempre un nome perché il tuo nome vero non comparirà assolutamente. Comparirà un nome fittizio e, se occorre, modificherò tutti i dati che possono renderti riconoscibile. Per questo motivo, mandandomi una lettera, accetti che io la pubblichi. Se i particolari cambiano, la sostanza no e quello che ti sembra che si verifichi solo a te capita a molti e perciò mi sembra giusto condividere sul blog la risposta. IMPORTANTE: se scrivi un commento sul BLOG, NON FIRMARE CON IL TUO NOME E COGNOME VERI se non vuoi essere riconosciuto, perché io non posso modificare i commenti.

Non mi scrivere sulla chat di Facebook, perché non posso rispondere da lì.

Ricevo molte mail e perciò capirai che purtroppo non posso più assicurare a tutti una risposta. Comunque, cerco di rispondere a tutti, e se vedi che non lo faccio, dopo un po' scrivimi di nuovo, perché può capitare che mi sfugga qualche messaggio.

Proprio perché ricevo molte lettere, ti prego, prima di chiedermi un parere, di leggere i post arretrati (ce ne sono moltissimi sulla scuola), usando la stringa di ricerca; capisco che è più lungo, ma devi capire anche che se ho già spiegato più volte un concetto mi sembra inutile farlo di nuovo, per fare risparmiare tempo a te :-)).

INFORMAZIONI PERSONALI

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La professoressa Milani, toscana, è un’insegnante, una scrittrice e una blogger. Ha un’esperienza di insegnamento alle medie inferiori e superiori più che trentennale. Oggi si dedica a studiare, a scrivere e a dare consigli a insegnanti e genitori. "Isabella Milani" è uno pseudonimo, scelto per tutelare la privacy degli alunni, dei loro genitori e dei colleghi. È l'autrice di "L'ARTE DI INSEGNARE. Consigli pratici per gli insegnanti di oggi", e di "Maleducati o educati male. Consigli pratici di un'insegnante per una nuova intesa fra scuola e famiglia", entrambi per Vallardi.

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lunedì 31 marzo 2014

Cari lettori del mio blog, leggete tutti questo post. 451° post

Cari lettori, chi ha un blog sa che ogni giorno l'autore del blog può vedere quante persone leggono ogni singolo post.
Di solito chi approda a questo blog è perché cerca una soluzione a qualche problema: genitori alle prese con figli difficili, o con insegnanti che non gli piacciono; insegnanti che trovano delle difficoltà nella gestione degli alunni e cercano qualche idea per superare i problemi, o anche soltanto per sentirsi meno soli. 
Capita poi che chi comincia a leggere per caso, si affezioni e continui a leggere tutto.
Il motivo per cui vi scrivo è che noto che chi frequenta il blog preferisce leggere le lettere e le risposte alle lettere. Se scrivessi un post su un'insegnante che ha schiaffeggiato un alunno ci sarebbe un'impennata nelle visite. Ma se cercate degli spunti di riflessione, se sperate di capire che cosa si deve insegnare e come si deve insegnare credo che dobbiate leggere soprattutto i post che apparentemente non sono strettamente legati alla pratica didattica.
Alla base di tutto quello che scrivo, di quello che sostengo, dei suggerimenti che do - nel blog e nel libro - c'è una certa idea della cultura, dello studio, dei rapporti con gli altri, della realtà, di tutto quello che sta dietro alla voglia di insegnare, all'entusiasmo che serve a spronare i ragazzi e a insegnare a capire.
Tutto questo si trova soprattutto nei post sulla cultura, sulla violenza, sulla paura, sulla primavera, sul viaggiare con la mente, sul dolore, sulla solitudine, sulla tolleranza, su come si insegna. Leggete soprattutto quei post.
Spesso mi chiedete come potete rendere interessanti le lezioni. Io ho già scritto dei post e ho già fatto degli esempi; nel libro ho già spiegato come fare, ho aggiunto a "L'arte di insegnare" un'appendice con consigli di lettura che sono completamente diversi dai consigli di altri libri. Ma non tutti li leggete. Non tutti cercate nel blog.
Allora adesso vi dico: leggetelo tutto, dall'inizio. All'inizio ho cominciato con qualche post, più narrativo, tanto per rompere il ghiaccio. Ma poi iniziano i post con le vostre lettere e le mie risposte.  Leggete e meditate. Scrivo per aiutare chi si trova in difficoltà o per dare agli altri qualche spunto di riflessione, qualche idea o qualche conferma.
Ho scritto il libro. Ci sono molte recensioni, sia per la prima versione che per la seconda. Leggetele. E poi leggete anche il libro, se non lo avete già fatto. C'è anche in qualche biblioteca. O forse ce l'ha un vostro collega. Comperatelo e, se vi piace, consigliatelo. E prestatelo. O non compratelo e fatevelo prestare, ma leggetelo.  Il libro è molto più completo, perché c'è quello che trovate nel blog, ma ci sono anche le idee che stanno alla base di quello che scrivo; c'è la mia idea di Scuola. Se è un'idea di Scuola che piace anche a voi, portatela avanti. Io scrivo, voi potete aiutarmi facendo sapere agli altri che esiste un'altra Scuola, che è diversa da quella che diffondono i media. E fate conosce il libro anche se volete che la Vallardi mi pubblichi anche il prossimo libro :-)
Grazie.

venerdì 28 marzo 2014

SUPERATE LE 455.555 VISITE AL BLOG!


WOW, ci stiamo avvicinando al mezzo milione di visite! Chi lo avrebbe detto, quando questo blog è nato?
Grazie a tutti voi che mi leggete! 

ECCO I POST PIU' LETTI IN ASSOLUTO:

giovedì 27 marzo 2014

"Prof, ma la cultura a cosa serve?" Seconda parte. 450° post

Quando un ragazzo chi chiede "Prof, ma la cultura a che cosa serve?", intende probabilmente "A che cosa serve studiare, essere colti?".  Ma la cultura e lo studio non sono la stessa cosa. La cultura comprende tutto quello che l'Uomo può sapere. Con lo studio ci appropriamo di una parte della cultura. 
Noi dobbiamo insegnare ai ragazzi a capire la straordinaria importanza della cultura nella vita dell'Uomo, per suscitare in loro il desiderio di studiare per possederla.
Il compito più arduo per un insegnante è proprio questo. Perché quando ci riusciamo possiamo davvero far tirare fuori da ogni alunno il suo meglio. 
Spesso non ci riusciamo, in realtà, perché non siamo noi i soli che costruiscono le loro convinzioni: ogni giorno noi cerchiamo di educarli alla cultura e ci sono messaggi che li bombardano convincendoli che con la cultura non si guadagna e non si mangia, che quello che conta è solo l'aspetto fisico, o la fortuna, o la furbizia. Ma dobbiamo tentare, senza stancarci e senza demoralizzarci se i risultati sono pochi e non sono immediati.
Prima di tutto riflettiamo noi, convinciamoci che la cultura è essenziale per una vita degna di essere vissuta. Solo se ne saremo convinti riusciremo ad essere convincenti. La cultura è la vera grande ricchezza dell'Uomo. Ripetiamo questo concetto ogni volta che ce ne capiterà l'occasione. Tutti, qualunque sia la materia che insegniamo. 
La cultura è tutto quello che noi siamo, come esseri umani. 
Nella cultura è racchiuso tutto quello che abbiamo pensato e fatto fin dagli albori della storia. C'è tutto quello che abbiamo imparato e capito. Ci sono tutti gli errori  che abbiamo fatto e che non dobbiamo più commettere.
Nella cultura ci sono tutte le conoscenze dell'essere umano, che ci permettono di vivere, di capire, di interpretare il mondo che ci circonda, di migliorare, di  organizzare il presente e di progettare il futuro.
La cultura contiene tutti i libri, che a loro volta contengono tutto quello che narratori, poeti, filosofi, storici, matematici, scienziati, e studiosi di ogni genere hanno pensato, capito e desiderato spiegare e raccontare al resto del mondo, anche dopo la loro morte.
Studiare e farsi una cultura personale significa attingere a quella enorme ricchezza e appropriarsi di una parte. Di una piccolissima parte, in realtà, ma che è molto superiore a tutto quello che una persona può imparare durante la sua vita semplicemente dal rapporto con gli altri. Senza libri avrò esperienza soltanto di ciò che farò io e di quello che mi racconteranno le persone che vivono intorno a me. Se, per esempio, voglio fare il vino, mi insegnerà mio padre, al quale avrà insegnato suo padre. Mi insegnerà quello che hanno capito lui e suo padre, magari con i consigli di un fratello, di un cugino o di un amico. Poche persone in tutto. Ma se leggo un libro sulla vinificazione potrò avere a disposizione l’esperienza di cinquanta persone di tutti i luoghi del mondo e in tutte le condizioni. E se ne leggo dieci potrò moltiplicare per dieci quelle cinquanta persone. E questo vale per qualsiasi argomento o problema.
Bisogna spiegare ai ragazzi che possono vivere senza studiare. E possono vivere anche bene, mangiando, bevendo, dormendo, facendo sesso, ridendo e scherzando. Ma bisogna cercare di far loro capire che c’è una parte enorme della vita che loro, senza cultura, non conosceranno mai.
Per fare questo dobbiamo stupirli, far loro provare delle intense sensazioni. L’amore per la cultura e per lo studio che porta a quella cultura non si può assolutamente imporre. Si può solo suscitare nei bambini e nei ragazzi cercando far loro intravvedere e scoprire altri mondi: il mondo dei pensieri profondi, il mondo della bellezza delle piccole cose, dei grandi spettacoli, dell’arte, della musica; il mondo della straordinaria logica che c’è dietro ai numeri; il mondo degli esseri umani che nei secoli e nei millenni hanno fatto cose straordinarie, hanno lottato per sconfiggere la paura, le malattie, per rendere migliore la vita dell’Uomo.
Bisogna spiegare ai ragazzi che se non ci fosse la cultura, e se non ci fosse chi studia, non ci sarebbe nulla di quello che ci circonda, neppure quello che a loro piace tanto. Non ci sarebbe il cellulare, né l’aereo, né l’automobile, ma neppure il medico e le medicine.
La cultura serve a questo: a vivere.



mercoledì 26 marzo 2014

"Prof, ma la cultura a cosa serve?" Prima parte. 449° post

Maria mi scrive, tra l'altro:

"Chiudo con un ultima domanda: ho visto che con i ragazzi bisogna avere sempre la risposta pronta per stupirli e "avere la meglio su di loro" ma una domanda a cui non sono ancora riuscita a trovare una risposta che li spiazzi è la solita: ‘Prof, ma la cultura a cosa serve?’ Difficile dare una risposta che sia credibile per un adolescente!Tu cosa dici in questi casi? Spesso la domanda non ha neanche un tono maleducato ma suona più che altro come un'amara costatazione...Un caro saluto, Maria.”

Cara Maria, se un ragazzo ti fa questa domanda, significa che non ha capito perché si studia. E questo significa che tu e gli insegnanti che ti hanno preceduto non siete riusciti a trasmettere la consapevolezza che studiare serve. O che quel ragazzo, anche se a scuola avete cercato di farglielo capire, vive in un ambiente in cui lo studio non interessa a nessuno.
Se i ragazzi non capiscono perché studiano non studieranno davvero. Studieranno per forza o per convenienza. Non credo che sia vero quello che sostiene chi dice che, per forza o per convenienza, l’importante è che studino. Credo che quello che i bambini e i ragazzi buttano giù per forza, come se fosse una medicina amara, venga dimenticato in breve tempo.
Quello che dobbiamo fare a scuola – in tutti gli ordini di scuola – è suscitare il desidero di leggere, di riflettere, di capire, di sapere e quindi di studiare. Ma leggere, riflettere, capire, sapere e studiare costa fatica e i ragazzi vivono oggi in un mondo dove la parola “faticare” è una parolaccia. Perché i ragazzi studino, dobbiamo dar loro un motivo per farlo. E il motivo non può essere la paura (del brutto voto, del rimprovero o della bocciatura). Dobbiamo spiegare loro che la cultura, lo studio, la lettura, l’impegno, sono i mezzi per una vita migliore, più ricca. Non è facile, in questo tipo di società.
Un tempo la motivazione a studiare veniva data dalla constatazione che chi studiava poteva migliorare la sua situazione sociale,  poteva farsi strada nella vita, farsi un nome. Oggi tutto sembra dire che è il furbo, il fortunato e  perfino il disonesto, quello che si fa strada nella vita.

Noi insegnanti, a scuola, dobbiamo insegnare dei valori che permettano ai ragazzi di non credere più ai falsi miti che i media propongono ogni giorno.
Se già noi pensiamo che sia tutta fatica inutile, abbiamo perso in partenza. Se quando diciamo che la cultura è importante facciamo percepire che ci crediamo poco, abbiamo perso.
Io sono convinta che studiare sia molto importante. La cultura, il sapere, sono moltissimo, nella vita.  Non perché "servono", nel senso che sembra importante oggi, e cioè che "ti rendono ricco", ma perché ti rendono Uomo. La cultura e il sapere sono quelli che ci allontanano sempre di più dallo stato selvaggio, dallo stato animale. Per quanto stupendi possano essere gli animali, quando diciamo che una persona è un animale non gli facciamo un complimento. Un animale – per esempio un cane – è un meraviglioso compagno di vita, uno di famiglia. Sa essere tenero, protettivo, fedele, geloso, intelligente, simpatico; sa capirci, consolarci, aiutarci. Ma a suo modo, che è il modo di un animale. E possiamo anche dire che a volte il cane è migliore di certe persone. Ma il cane non è una persona. Non ha quello che distingue l’Uomo dagli animali. Il cane mangia, beve, corre, salta, si accoppia, gioca, ha paura, abbaia, ringhia, aggredisce, si azzuffa. Anche l’Uomo mangia, beve, corre, salta, si accoppia, gioca, ha paura, urla, minaccia, aggredisce, si azzuffa. E in queste attività non si discosta dalla sua natura animale. Ci si discosta solo quando fa attività che il cane non saprà mai fare.

Tommaso d’Aquino, più di settecento anni fa, scriveva:
“Tra le azioni compiute dall’uomo si dicono propriamente umane solo quelle che sono tipiche dell’uomo in quanto uomo. Infatti l’uomo si distingue dalle altre creature per il fatto di essere signore dei propri atti. Dunque si chiameranno propriamente umane quelle azioni di cui l’uomo è signore. Ora, l’uomo è padrone delle proprie azioni grazie alla ragione ed alla volontà: e perciò il libero arbitrio è detto facoltà di intendere e volere. Dunque sono dette propriamente umane quelle azioni che vengono da una decisione volontaria. Se poi ci sono anche azioni diverse da queste ascrivibili all'uomo, possono essere dette azioni dell’uomo, ma non propriamente umane, cioè dell’uomo in quanto uomo. Ora, l’oggetto della volontà è il fine ed il bene, motivo per cui tutte le azioni umane risultano essere orientate da un fine.” 

L’Uomo sa fare cose che gli animali non potranno mai fare: per esempio, legge, scrive, ascolta musica, dipinge, progetta, realizza i suoi progetti, inventa, prevede, ricorda, riflette, decide, convince. L’Uomo imbroglia, ma sa difendersi dagli imbrogli. Sbaglia, ma sa imparare dai suoi errori.
Gran parte delle azioni che distinguono l’Uomo dall'animale sono azioni che derivano dallo studio e dalla cultura. Perché, in realtà, l'Uomo è davvero un animale, e per non sentirsi solo un animale deve elevarsi, fare cose che non siano quelle che fanno anche gli animali.
Ed è questo che spiego ai miei alunni: sono liberi di vivere la loro vita semplicemente mangiando, bevendo, accoppiandosi, urlando, aggredendo, azzuffandosi, limitandosi ad attività che anche gli animali sanno fare.
Oppure possono studiare, provare emozioni sempre più raffinate; possono organizzare attività di solidarietà, inventare oggetti e produrre idee che possono essere tramandate agli altri. Essere importanti nella catena della vita, insomma. Lasciare sulla terra un segno del loro passaggio. In altre parole, possono considerare la cultura come qualcosa di essenziale per vivere pienamente la vita, da uomini. Oppure no.
È questo, che dico ai miei alunni. Quasi tutti i giorni.

domenica 23 marzo 2014

Ripropongo "E' di nuovo primavera"

È di nuovo primavera.

È di nuovo primavera.
L’aspettavo. Come l’ho aspettata ogni anno della mia vita. Mi sembra l’inizio di qualcosa di bello. Qualcosa che può fermare le guerre, riparare i danni di tsunami e terremoti, mondare tutto ciò che è marcio, ripulire lo sporco, far rinascere quello che è morto.
Non posso fare a meno di ripensare, in questo inizio di primavera, ai versi di Carducci, quelli che ha dedicato al suo bambino morto. L’albero di melograno continua a fiorire anche adesso che suo figlio non c’è più.
Ritorna la primavera, tutto rinasce, ma anche le persone che io amavo, che sono morte, non ritornano più. Come il bambino di Carducci.

Continua qui

E anche in questo post.


venerdì 21 marzo 2014

Quello che non sappiamo dei nostri alunni. 448° post

Notizie che ogni tanto leggiamo:

"Ha mandato all'ospedale il figlio di diciotto anni con lesioni gravi alla testa e al fegato dopo averlo riempito di botte per l'ennesima volta."

"Madre uccide le figlie di 13, 10 e 3 anni"

"Picchia la moglie, è la figlia sedicenne a chiamare la polizia e a far arrestare il padre"

“Obbliga la figlia a prostituirsi ubriacandola e drogandola.
La madre assisteva agli incontri che le servivano per ottenere soldi e cocaina. La ragazza 17enne con spacciatore 56enne”

“In provincia di Reggio Emilia i carabinieri hanno trovato una bambina di sei anni scalza, graffiata, al freddo dei primi di febbraio, con il viso rivolto verso il muro di una casa. La sua casa. Aveva la febbre a 38,5 e piangeva. "Sono stata monella", ha detto.”
Monella come può esserlo una bambina di sei anni. I genitori sono stati denunciati per maltrattamenti, e chissà come va a finire. Ma non è di questo che mi interessa parlare adesso.
Mi interessano queste domande: andavano a scuola questi bambini e questi ragazzi? Gli insegnanti si rendevano conto di quello che questi alunni vivevano a casa? Il diciottenne e la ragazza diciassettenne si comportavano bene? O erano, magari, ragazzi difficili?

Ci sono tante cose che non sappiamo, dei nostri alunni. Ogni tanto uno ci arriva con un occhio nero. Gli chiediamo che cosa ha fatto e lui dice che è caduto dalla bicicletta. Ma non ha neanche un graffio. Solo quell'occhio nero. Se incontri il padre e gli dici “Ho visto che suo figlio ha un occhio nero.” Lui risponde “Ah, sì…Il suo fratellino gli ha dato un colpo”. E sai che la bicicletta non c’entra. Non puoi fare nulla, perché non puoi dimostrare nulla, ma almeno da quel momento fai attenzione.
Ma ci sono ferite che non si vedono. E sono ben più gravi.
Sappiamo che ci sono bambini e ragazzi che subiscono abusi, che vengono messi fuori casa, al freddo, per punizione; sappiamo che ci sono ragazze marocchine, o cingalesi, picchiate perché “troppo occidentali”; ci sono bambini che vedono pestare a sangue la madre, o che vivono con una madre nevrotica che li fa vivere in un inferno; e ci sono ragazzi che vedono ogni giorno il padre tornare a casa ubriaco fradicio, o la madre tornare a casa di mattina, dopo essersi prostituita sulla strada. Ci sono ragazze costrette con le botte a prostituirsi e ragazzi gay picchiati perché effeminati.
E vengono a scuola. La Scuola dell’obbligo, che li obbliga a venire a scuola, e li punisce con la bocciatura se frequentano saltuariamente e se non toccano libro, ma non si preoccupa di capire perché non vengono, perché non studiano, perché si comportano male. La Scuola, non gli insegnanti. Perché gli insegnanti non possono fare quasi nulla, con le risorse che hanno. Non possono seguire tutti e ventotto gli alunni. Non hanno tempo di guardarli negli occhi, di parlare loro a tu per tu, per capire quanto è profondo il loro disagio e quanto dolore c'è dietro quegli sguardi. Perché i bambini e i ragazzi che vivono nella violenza sono spaventati. Vivono nel terrore, nell'incertezza e nel dolore. Aspettano a casa il padre, o la madre, e non sanno mai quello che accadrà, se sarà quello il giorno delle botte, o della violenza sessuale, o “dei casini”. I bambini e i ragazzi che vivono nella violenza sono sempre “nei casini”, e non hanno quasi mai qualcuno con cui confidarsi. A volte finiscono male, perché nessuno ha potuto aiutarli.
Ma noi li rimproveriamo perché rispondono male o perché non hanno studiato, o perché non hanno fatto il compito. “Ma che cosa fai tutto il giorno?”, diciamo con aria severa.
E ci sono anche bambini e ragazzi che vivono nell'indigenza. Il padre disoccupato, a volte anche la madre. Poco da mangiare, poco da vestire. E noi chiediamo loro “Di nuovo senza quaderno! Come mai non hai ancora il libro? I libri ci vogliono! Anche oggi ti sei dimenticato di portare i soldi per l’assicurazione!”.
I bambini e i ragazzi che vivono nella povertà sono bambini e ragazzi che vivono nel disagio e nella vergogna. Invidiano gli altri, che hanno almeno il necessario e qualche volta anche il superfluo. E probabilmente non capiscono perché loro hanno tutte le sfortune.
Ci sono ragazzi che hanno fratelli disabili che non li fanno studiare, padri o madri gravemente malate, nonni e fratellini da accudire, finché non torna la mamma dal lavoro; ci sono bambini che non vedono mai i genitori che fanno il turno di notte e dormono di giorno; ragazzini che tornano a casa, ma non c’è nulla da mangiare e devono arrangiarsi con quello che trovano in frigo.


Ci sono tante cose che non sappiamo dei nostri alunni. Ricordiamocelo sempre.

sabato 15 marzo 2014

Questo blog non è un forum. Terza parte. 447° post

QUESTO BLOG NON E' UN FORUM.
QUI NON SI FA POLEMICA E NON SI LITIGA.
Chi lo desidera può intervenire ma solo con educazione.
Commenti anonimi non verranno presi in considerazione.
Il mio blog non è fatto per scambiare le opinioni, ma per esprimere le mie, per condividere le mie esperienze e per dare dei consigli, sperando di essere di aiuto a qualcuno. Quella di non volere il dibattito nel blog è una scelta obbligata, se voglio continuare ad avere il tempo di scrivere (sul blog, su facebook e privatamente).
Tutti possono leggere i consigli che do, e accettarli, se li ritengono validi. Lascio a tutti la libertà di pensarla diversamente, ma non quella di pretendere che io controbatta. E non lascio neanche la libertà di controbattere sul blog quello che scrivo, perché questo mi obbligherebbe a rispondere. Per questo ci sono i forum, appunto.
Metto continuamente in discussione e valuto le mie idee discutendo con le mie colleghe (e con i miei colleghi) e leggendo quello che scrivono sul web gli insegnanti, i giornalisti, gli psicologi, gli psichiatri, i pedagogisti, ecc..
Le mie idee sono spesso il risultato del contrasto fra visioni diverse della scuola.

giovedì 13 marzo 2014

Se si muore per la Scuola. 446° post

“Non ce la faccio più a sopportare questi rompiscatole, non ce la faccio a studiare. Non riesco più. Non posso più vivere così”
Questa è una frase contenuta nel biglietto di addio lasciato da una ragazza di terza media che si è suicidata. I rompiscatole sono gli insegnanti.
“Non si può morire così, perché la professoressa l’ha sgridata. Non è giusto. Io lo ripetevo ai prof, che lei era molto sensibile, troppo. Che non dovevano alzare la voce con lei, perché non lo sopportava. È sempre stata così. Invece la tormentavano, non la lasciavano tranquilla”.
E queste sono le parole della madre.
È terribile per noi insegnanti leggere queste notizie. Noi passiamo il tempo, la nostra vita, a cercare di aiutare gli alunni, di insegnare quello che possiamo, e l’idea che una ragazzina possa uccidersi è un fallimento. Ma non è un fallimento solo per noi: lo è per tutti gli adulti. Qualsiasi sia il motivo per cui lo fa: che lo faccia per amore, per vergogna, per paura, per i voti, perché è rimasta incinta, perché si sente in trappola per qualsiasi motivo. È sempre una sconfitta per gli adulti. Per tutti.
Perché quando qualcuno si suicida significa che non ha saputo trovare una via di uscita da un problema.
Ci sono ragazzi che si suicidano perché vengono presi in giro, perché sono stati bocciati, perché vengono rimproverati, perché hanno sfasciato la macchina del padre, perché non sanno affrontare la loro omosessualità. E sempre si dà la colpa a qualcuno. Quando il suicidio c’entra con la scuola si dà la colpa agli insegnanti. Gli insegnanti sono rompiscatole quando rompono il quieto vivere creato intorno ai ragazzi quando non si vuole insegnare loro ad affrontare i problemi. Perché è difficile e faticoso, insegnare a combattere contro le difficoltà, che prima o poi si presentano nella vita di tutti. E si dà la colpa agli altri se qualcosa va storto. Agli insegnanti, per esempio.
Ma non è giusto. Non possiamo accettare anche questo fardello.
Un ragazzo si suicida quando i brutti voti e la bocciatura vengono sventolati come tragedia, come condanna, come minaccia. Soprattutto a casa. Nella mia carriera mi sono trovata abbastanza spesso a suggerire ai genitori di essere meno rigidi con i figli e di evitare di pretendere risultati che in quel momento i ragazzi magari non potevano dare. I genitori vengono a colloquio per sapere come va il figlio, e la cosa che interessa alla maggioranza è soltanto se ha la sufficienza e se verrà promosso. E capita che se tu dici che il ragazzino ha preso 6, la madre risponda “Come..soltanto 6? Mio marito vuole che prenda almeno 7.”
Almeno 7. E se il  bambino non ci riesce proprio?
Ci sono genitori che non rimproverano mai i figli. Lo vediamo quando poi arrivano a scuola e, se li rimproveri, ti guardano con gli occhi sgranati come se avessero visto un alieno.
Ci sono genitori che non alzano mai la voce, perché cercano di parlare con i figli, perché hanno un tipo di vita che permette anche dei dialoghi sereni. Ma ci sono degli altri genitori che rischiano ogni giorno la cassa integrazione, sono nervosi, molto nervosi, e sono abituati a reagire urlando, a rimproverare insultando, a mollare uno schiaffo per sottolineare un concetto.
Ci sono figli di genitori che vanno d’amore e d’accordo, abituati a vedere sorrisi e e abbracci, e figli di genitori che si picchiano, abituati a vedere calci e pugni.
Ci sono genitori che lasciano (devono lasciare) i figli sempre soli e che non sanno quasi niente di loro; e ci sono genitori che hanno un controllo costante su ogni sospiro dei figli.
Ci sono genitori che non hanno la minima conoscenza della psicologia dei bambini e dei ragazzi e fanno errori colossali. E ce ne sono altri che hanno studiato psicologia e che fanno lo stesso errori colossali.
Nelle scuole sono insieme, tutti questi figli di genitori così diversi. Sono 25, sono 28. Troppi.
E noi, anche se stiamo attenti, attentissimi,  come possiamo accorgerci di quello che c’è dietro i loro comportamenti, i loro sguardi?
I ragazzi sono seduti tutti insieme davanti a noi, e non abbiamo quasi nessuna occasione per parlare a tu per tu, con calma. Non possiamo conoscerli, se non per quello che vediamo da lontano, dalla cattedra, attraverso il filtro della classe intera.
Noi che insegniamo italiano abbiamo qualche possibilità in più, quando sono piccoli, di leggere quello che scrivono della loro vita. Ma spesso non basta. Perché i veri problemi, di solito, non li raccontano. E, se non ce lo dicono, noi non sappiamo se a casa c’è una mamma gravemente malata, se il padre torna sempre ubriaco, se non hanno i soldi per pagare le bollette.
E quando i ragazzi arrivano alle superiori, quando diventa ancora più difficile scalfire la loro indifferenza verso la Scuola e gli insegnanti, dove è sempre più difficile essere considerati come guide, in un mondo dove solo chi ha successo e denaro ha diritto di essere ammirato, dove tutto cambia a un ritmo che noi adulti spesso non riusciamo a tenere, allora non abbiamo più molte speranze che ci confidino il loro malessere, e non abbiamo occasioni per cercare di vederlo perché siamo sempre troppo lontani da loro.

“Io lo ripetevo ai prof, che lei era molto sensibile, troppo. Che non dovevano alzare la voce con lei, perché non lo sopportava. È sempre stata così. Invece la tormentavano, non la lasciavano tranquilla”. Come possono, gli insegnanti, “lasciare tranquilla”, per esempio, una ragazza che non studia, che non viene a scuola, o che insulta i compagni? Noi dobbiamo intervenire in qualche modo. O dovremmo tacere e “lasciarla tranquilla”? Se una ragazza è molto fragile, se si spaventa quando qualcuno alza la voce, come possiamo noi insegnanti, alle prese con 25 ragazzi o bambini urlanti, non alzare mai la voce? Come possiamo non alzare mai la voce se un ragazzo dà un pugno ad un altro? Come possiamo non alzare mai la voce, o non rimproverare un’alunna che invece di stare attenta si specchia e si trucca? Perché non è così facile fare in modo che tutti e 25 gli alunni di una classe stiano attenti. Non è facile far capire a quella ragazza che si specchia e si trucca che lo studio è più importante, perché magari a casa riceve lezioni di trucco dalla madre. E quando noi, felici perché quasi tutti stanno attenti, ma impotenti di fronte a qualche irriducibile menefreghista, perdiamo per un attimo il nostro indispensabile self control e tiriamo un urlo, dovremmo essere capiti.
Se i ragazzi di una classe fossero molti di meno, se nelle scuole ci fosse uno psicologo, se alla Scuola venissero assegnate più risorse, se i genitori fossero più collaborativi con noi, e più attenti ai valori veri della vita da trasmettere ai figli, se la gente smettesse di credere che il nostro lavoro consiste semplicemente in una lezioncina che propiniamo, sempre uguale e senza problemi, agli alunni, forse – e dico “forse” – potremmo fare di più per questi ragazzi.
Perché quando un ragazzo, un figlio, si suicida per la Scuola, qualcosa non ha funzionato. Ma non sono stati gli insegnanti, la causa del malfunzionamento. Non ha funzionato l’educazione che ha ricevuto a casa, non ha funzionato il sistema scolastico che non prevede momenti per parlare con gli alunni, per capirli, per aiutarli nei loro problemi, per far loro capire che un rimprovero non significa che tutto è perduto. Il massimo che possiamo fare noi insegnanti, oggi, così come è strutturata la Scuola, è di cercare aiutare i genitori nel compito di insegnare ad affrontare le difficoltà. Perché l’educazione alla vita – non dimentichiamocelo mai – è, prima di tutto, compito dei genitori.
Non ci può essere data anche la responsabilità della capacità di vivere degli alunni.
Se  la società smettesse di abituare i ragazzi al concetto che tutto deve essere facile, che ogni ostacolo deve essere rimosso dalla loro strada, forse i  ragazzi non si drogherebbero e non si suiciderebbero.

domenica 9 marzo 2014

L'ARTE di INSEGNARE (EBOOK) in PROMOZIONE a MARZO!



In quasi tutte le librerie online l'ebook di 
"L'arte di insegnare"
 è in promozione a € 3.99 per tutto il mese di marzo.


 

 In promozione fino al 31/03/2014 (8,99€)


sabato 8 marzo 2014

"Festa della donna": ma che senso ha? 445° post

"Festa della donna": ma che senso ha? che cosa significa? A che cosa serve? Chi festeggia chi? Sono gli uomini, quelli che ci festeggiano?  Ci festeggiano i ristoranti, proponendo menù speciali e mettendo rametti di mimosa sui tavoli? La televisione ci festeggia con un programma di canzoni d'amore? Le aziende ci festeggiano con della pubblicità dedicata? Ci festeggiano i fiorai, vendendo mini rametti di mimosa a peso d'oro (tra l'altro, ma non sarebbe più bello lasciare all'albero la sua cascata di fiori?)? 
Ma - diciamocelo - ma chi se ne importa di queste cose? Che cosa ci cambiano? Nulla. E come possiamo festeggiare quando abbiamo appena letto di donne assassinate o picchiate o violentate?
In realtà ci festeggiamo da sole, l'8 marzo, in una specie di triste rito collettivo in cui - per una volta - si esce finalmente a cena con le amiche e si va a far bisboccia da qualche parte, magari facendo  "le cose da uomini", cioè quello che fanno ogni altro giorno dell'anno gli uomini (certi uomini), come sghignazzare di fronte a uno spogliarello maschile, illudendosi, così, di essere molto femministe e di avere raggiunto la parità.
Oppure i media fingono di festeggiarci buttandola sulle inchieste e scrivendo articoli su quante donne vengono maltrattate in un mese, su quanta strada ci sia ancora da percorrere, su quante donne vengono ancora ammazzate dagli uomini, su quanto sarebbe opportuna una vera parità. E giù a citare "Uomini che odiano le donne", o a riempirsi la bocca di una orrenda parola che qualcuno ha inventato -femminicidio - e che oggi è sulla bocca di tutti.
"Femminicidio" contiene in sé la parola "femmina", che ha in sé, a sua volta, una visione dispregiativa della donna, vista come una femmina (solo dal punto di vista del suo sesso, dunque) e non come una donna. Non mi piace. Quando un uomo picchia, e stupra una donna è un assassino, o uno stupratore. Si deve parlare di "assassinio" o di "stupro" o di "violenza", o di "uxoricidio", non di "femminicidio".
La donna ha ancora lo stesso problema che aveva nella preistoria: l'uomo ha una forza fisica maggiore e quando qualcosa non è come vuole, la usa. Certi uomini sono rimasti all'età della pietra, quando la donna veniva catturata come le altre prede. Per migliaia di anni le donne sono state considerate inferiori, oggetti da possedere, da mostrare e, se occorreva, da distruggere. Ogni problema e ogni malumore, veniva risolto con pugni, calci, violenze. Durante tutte le guerre le donne sono state stuprate dai soldati nemici. Il sesso violento usato come arma. Le donne nella Storia sono state sempre maltrattate. Sono state vendute, sono state  rese schiave, costrette a prostituirsi. 
E poco importa che ci sia stata qualche regina, qualche principessa, quattro faraoni donna, qualche società matriarcale. Le altre donne, le donne comuni, hanno sopportato soprusi, vissuto vite di sofferenza, e sono state considerate esseri inferiori. E per certi uomini della società in cui viviamo, le donne sono ancora così. E non parlo neanche dei Paesi dove le donne vengono condannate alla lapidazione anche quando qualcuno le stupra, o dove vengono sottoposte a lapidazione e a infibulazione, o condannate a morte per aver disubbidito al padre o al marito.
Non ci illudiamo. Smettiamo di assecondare questo stupida finzione dell'8 marzo. Festa della donna? Mimosa? No, grazie. 
"Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo", scriveva Quasimodo. E' vero. 

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