“Non ce la faccio più a sopportare questi rompiscatole,
non ce la faccio a studiare. Non riesco più. Non posso più vivere così”
Questa è una frase contenuta nel biglietto di addio
lasciato da una ragazza di terza media che si è suicidata. I rompiscatole sono
gli insegnanti.
“Non si può morire così, perché la professoressa l’ha
sgridata. Non è giusto. Io lo ripetevo ai prof, che lei era molto sensibile,
troppo. Che non dovevano alzare la voce con lei, perché non lo sopportava. È
sempre stata così. Invece la tormentavano, non la lasciavano tranquilla”.
E queste sono le parole della madre.
È terribile per noi insegnanti leggere queste notizie. Noi
passiamo il tempo, la nostra vita, a cercare di aiutare gli alunni, di
insegnare quello che possiamo, e l’idea che una ragazzina possa uccidersi è un
fallimento. Ma non è un fallimento solo per noi: lo è per tutti gli adulti. Qualsiasi sia il motivo per cui lo fa: che lo faccia per amore, per
vergogna, per paura, per i voti, perché è rimasta incinta, perché si sente in
trappola per qualsiasi motivo. È sempre una sconfitta per gli adulti. Per
tutti.
Perché quando qualcuno si suicida significa che non ha
saputo trovare una via di uscita da un problema.
Ci sono ragazzi che si suicidano perché vengono presi in
giro, perché sono stati bocciati, perché vengono rimproverati, perché hanno
sfasciato la macchina del padre, perché non sanno affrontare la loro
omosessualità. E sempre si dà la colpa a qualcuno. Quando il suicidio c’entra
con la scuola si dà la colpa agli insegnanti. Gli insegnanti sono rompiscatole
quando rompono il quieto vivere creato intorno ai ragazzi quando non si vuole
insegnare loro ad affrontare i problemi. Perché è difficile e faticoso, insegnare a combattere contro le difficoltà, che prima o poi si presentano nella vita di tutti. E si dà
la colpa agli altri se qualcosa va storto. Agli insegnanti, per esempio.
Ma non è giusto. Non possiamo accettare anche questo fardello.
Un ragazzo si suicida quando i brutti voti e la bocciatura
vengono sventolati come tragedia, come condanna, come minaccia. Soprattutto a
casa. Nella mia carriera mi sono trovata abbastanza spesso a suggerire ai
genitori di essere meno rigidi con i figli e di evitare di pretendere risultati
che in quel momento i ragazzi magari non potevano dare. I genitori vengono a colloquio per sapere come va il figlio, e la cosa che interessa alla maggioranza è soltanto
se ha la sufficienza e se verrà promosso. E capita che se tu dici che il
ragazzino ha preso 6, la madre risponda “Come..soltanto 6? Mio marito vuole che
prenda almeno 7.”
Almeno 7. E se il
bambino non ci riesce proprio?
Ci sono genitori che non rimproverano mai i figli. Lo
vediamo quando poi arrivano a scuola e, se li rimproveri, ti guardano con gli
occhi sgranati come se avessero visto un alieno.
Ci sono genitori che non alzano mai la voce, perché
cercano di parlare con i figli, perché hanno un tipo di vita che permette anche
dei dialoghi sereni. Ma ci sono degli altri genitori che rischiano ogni giorno
la cassa integrazione, sono nervosi, molto nervosi, e sono abituati a reagire
urlando, a rimproverare insultando, a mollare uno schiaffo per sottolineare un
concetto.
Ci sono figli di genitori che vanno d’amore e d’accordo,
abituati a vedere sorrisi e e abbracci, e figli di genitori che si picchiano,
abituati a vedere calci e pugni.
Ci sono genitori che lasciano (devono lasciare) i figli
sempre soli e che non sanno quasi niente di loro; e ci sono genitori che hanno
un controllo costante su ogni sospiro dei figli.
Ci sono genitori che non hanno la minima conoscenza della
psicologia dei bambini e dei ragazzi e fanno errori colossali. E ce ne sono
altri che hanno studiato psicologia e che fanno lo stesso errori colossali.
Nelle scuole sono insieme, tutti questi figli di genitori
così diversi. Sono 25, sono 28. Troppi.
E noi, anche se stiamo attenti, attentissimi, come possiamo accorgerci di quello che c’è
dietro i loro comportamenti, i loro sguardi?
I ragazzi sono seduti tutti insieme davanti a noi, e non
abbiamo quasi nessuna occasione per parlare a tu per tu, con calma. Non
possiamo conoscerli, se non per quello che vediamo da lontano, dalla cattedra, attraverso il filtro della classe intera.
Noi che insegniamo italiano abbiamo qualche possibilità in
più, quando sono piccoli, di leggere quello che scrivono della loro vita. Ma
spesso non basta. Perché i veri problemi, di solito, non li raccontano. E, se
non ce lo dicono, noi non sappiamo se a casa c’è una mamma gravemente malata,
se il padre torna sempre ubriaco, se non hanno i soldi per pagare le bollette.
E quando i ragazzi arrivano alle superiori, quando diventa
ancora più difficile scalfire la loro indifferenza verso la Scuola e gli
insegnanti, dove è sempre più difficile essere considerati come guide, in un
mondo dove solo chi ha successo e denaro ha diritto di essere ammirato, dove
tutto cambia a un ritmo che noi adulti spesso non riusciamo a tenere, allora
non abbiamo più molte speranze che ci confidino il loro malessere, e non
abbiamo occasioni per cercare di vederlo perché siamo sempre troppo lontani da
loro.
“Io lo ripetevo ai prof, che lei era molto sensibile,
troppo. Che non dovevano alzare la voce con lei, perché non lo sopportava. È
sempre stata così. Invece la tormentavano, non la lasciavano tranquilla”. Come
possono, gli insegnanti, “lasciare tranquilla”, per esempio, una ragazza che
non studia, che non viene a scuola, o che insulta i compagni? Noi dobbiamo
intervenire in qualche modo. O dovremmo tacere e “lasciarla tranquilla”? Se una
ragazza è molto fragile, se si spaventa quando qualcuno alza la voce, come
possiamo noi insegnanti, alle prese con 25 ragazzi o bambini urlanti, non
alzare mai la voce? Come possiamo non alzare mai la voce se un ragazzo dà un
pugno ad un altro? Come possiamo non alzare mai la voce, o non rimproverare
un’alunna che invece di stare attenta si specchia e si trucca? Perché non è
così facile fare in modo che tutti e 25 gli alunni di una classe stiano
attenti. Non è facile far capire a quella ragazza che si specchia e si trucca
che lo studio è più importante, perché magari a casa riceve lezioni di trucco
dalla madre. E quando noi, felici perché quasi tutti stanno attenti, ma
impotenti di fronte a qualche irriducibile menefreghista, perdiamo per un
attimo il nostro indispensabile self control e tiriamo un urlo, dovremmo essere capiti.
Se i ragazzi di una classe fossero molti di meno, se nelle
scuole ci fosse uno psicologo, se alla Scuola venissero assegnate più risorse, se
i genitori fossero più collaborativi con noi, e più attenti ai valori veri
della vita da trasmettere ai figli, se la gente smettesse di credere che il
nostro lavoro consiste semplicemente in una lezioncina che propiniamo, sempre
uguale e senza problemi, agli alunni, forse – e dico “forse” – potremmo fare di
più per questi ragazzi.
Perché quando un ragazzo, un figlio, si suicida per la
Scuola, qualcosa non ha funzionato. Ma non sono stati gli insegnanti, la causa
del malfunzionamento. Non ha funzionato l’educazione che ha ricevuto a casa,
non ha funzionato il sistema scolastico che non prevede momenti per parlare con
gli alunni, per capirli, per aiutarli nei loro problemi, per far loro capire che un rimprovero non significa che tutto è perduto. Il massimo che
possiamo fare noi insegnanti, oggi, così come è strutturata la Scuola, è di
cercare aiutare i genitori nel compito di insegnare ad affrontare le difficoltà. Perché l’educazione
alla vita – non dimentichiamocelo mai – è, prima di tutto, compito dei
genitori.
Non ci può essere data anche la responsabilità della capacità
di vivere degli alunni.
Se la società
smettesse di abituare i ragazzi al concetto che tutto deve essere facile, che ogni
ostacolo deve essere rimosso dalla loro strada, forse i ragazzi non si drogherebbero e non si
suiciderebbero.