Il
28 dicembre 2014, Leelah Alcorn, una ragazza dell’Ohio, si è suicidata,
gettandosi sotto un camion. O meglio, si è suicidato Joshua, un ragazzo dentro
il quale viveva Leelah, una ragazza che avrebbe voluto essere come le altre. Ma
non le è stato permesso.
Leelah
si è suicidata perché i genitori le impedivano di iniziare la transizione verso
l’altro sesso, perché era contrario al loro credo religioso. Ma il rifiuto di
accettare come “normale” l’esistenza in natura, non solo di persone che provano
attrazione sessuale per persone dello stesso sesso – gli omosessuali-, ma anche
di persone che non si identificano con il sesso di nascita – i transgender,
nasce anche senza resistenze di tipo religioso.
È
cosa nota il fatto che la grande maggioranza della gente accetta solo quello
che è “normale”, cioè che rappresenta ciò che è più diffuso, che non è
eccezionale, che è aderente alla norma, alla consuetudine. Finché le cose sono
“normali” si sta più tranquilli. Ogni cosa diversa crea una specie di allarme,
che solo le persone intelligenti riescono a gestire. Perfino la diversità delle
persone geniali o molto creative può creare disapprovazione e disagio. Crea
disagio chi è malato, chi ha menomazioni fisiche o mentali, chi è diverso da
qualunque punto di vista.
La
religione, per esempio quella cattolica, ha i suoi motivi per non accettare chi
è diverso o vuole fare le cose diversamente. Per esempio non può accettare che
Dio faccia degli “errori”, per esempio creando un uomo nel corpo di una donna.
E non può accettare chi vuole comportarsi diversamente da quello che dicono le
Sacre Scritture. Ne sa qualcosa Galileo Galilei.
Ma
a me interessa parlare di noi, della gente comune e di come si comporta con chi
è diverso.
Nasce
un bambino e tutti sono felici. Ha il pisellino e perciò è un bel maschietto!
Il padre già immagina che gli insegnerà ad andare in bicicletta, a giocare a
calcio, e quando sarà più grande, gli dirà tutto su come si conquistano le
ragazze. La madre lo allatta, lo cura, lo veste di azzurro perché il rosa è
"da femmine". Lo accompagna ai giardini e lo guarda giocare con il
pallone. “Non piangere! Gli uomini non piangono!”, gli dice mentre gli asciuga
le lacrime dopo una caduta. “Che bell’ometto!” esclamano le amiche e i parenti.
Ma
dopo pochi anni – quattro o cinque- il bambino comincia a voler giocare con le
bambine e come le bambine: vuole avere le ali per svolazzare, vuole pettinare
le bambole anche quando, dopo la scuola materna, nessuno gliele dà più per
giocare; non vuole essere il principe, ma la principessa, vuole essere
l’infermiera invece dell’infermiere, vuole giocare a partorire. La mamma le
vede tutte queste cosette, ma non vuole neanche parlarne. Se le tiene
ermeticamente dentro, sperando che scompaiano come un sogno al mattino. Perché
sono convinta che ogni mamma veda bene come sono i suoi figli, anche se finge
di non vedere. E lo vedono anche gli insegnanti. Ma non sanno che cosa dire e
che cosa fare, perché è molto difficile parlare con un genitore che finge di
non capire e dirgli che suo figlio, il suo “ometto” in realtà – dentro - è una
“femminuccia”.
È
capitato anche a me di trovarmi a gestire la preoccupazione di scoprire fra i
miei alunni ragazzi omossessuali e transgender. È stato sempre molto difficile, perché sapevo che cosa li aspettava, in questa società, e perché in realtà non siamo preparati, né come genitori né come docenti, ad
affrontare situazioni che abbiano tanti punti sensibili. Soprattutto nel caso
di un transgender.
Allora
mi sono preparata da sola: ho letto molto e ho molto pensato. Se non lo avete
ancora fatto, vi invito a studiare l’argomento “sessualità”. Studiate la
differenza fra “transgender”, “transessuale”, “omosessuale”. Studiate perché
una persona è “transgender”, “transessuale”, “omosessuale”. Leggete
tanto, da tutti i punti di vista. Non lasciatevi fuorviare e bloccare dalla
paura, dai preconcetti e dall’ignoranza dell’argomento. Decidete voi che cosa
pensare. Sono sicura che deciderete tutti che non aiutare un alunno che si
scopre transgender, è una vera crudeltà, oltre che un’assurdità.
Dovete
prepararvi bene, perché non potete fare errori. E dovete essere pronti ad
affrontare la disapprovazione di chi considera “tabù” l’argomento “sesso” e,
ancora di più, l’argomento transgender. E sono ancora tanti. Dovete essere
pronti ad affrontare chi rifiuta il transgender, come fa con l’omosessuale, per
motivi religiosi.
Molti
insegnanti credono che sia giusto lasciar perdere, perché “è un argomento
delicato”, “non possiamo entrare così nel personale”; “ha i suoi genitori: ci
devono pensare loro”. Assurdo. Se ci pensassero già loro, se il ragazzo – o la
ragazza - fosse seguito, aiutato ad affrontare quella situazione particolare, se
fosse accettato per quello che è, non ci sarebbe bisogno dell'aiuto di noi insegnanti, se
non per educare i compagni alla diversità e al rispetto. Ma se i genitori non
ci pensano? Se proprio loro deridono o addirittura puniscono il figlio che
pretende che per lui si usino pronomi al femminile, che parla di sé al femminile,
che vuole vestire abiti da ragazza?
Noi
insegnanti abbiamo il dovere di aiutare i ragazzi in difficoltà, di qualunque
difficoltà si tratti. E in questo caso che cosa possiamo fare per aiutare un
alunno che non si identifica con il suo sesso di nascita?
Prima
di tutto dobbiamo osservare il suo rapporto con i compagni e controllare che
non sia oggetto di derisione. Poi dobbiamo trovare il modo di parlare con lui,
in privato.
Mi
è capitato di avere un alunno transgender solo una volta, nella mia carriera.
Un
ragazzo che sembrava una ragazza: il modo di vestire, il modo di pettinare i
capelli – lunghi- faceva sì che tutti lo scambiassero per una ragazza.
Quando
ebbi la conferma – in seconda- che scriveva di se stesso al
femminile, lo chiamai in disparte, fuori dalla classe, per esaminare con lui il
suo tema, come qualche volta faccio. Gli chiesi - in sostanza - perché parlava di se stesso come di una “persona sempre
fuori posto” che “non vale niente”, e aggiunsi “Vedo che scrivi ‘Sono una
ragazza’. Mi puoi spiegare perché?” Mi parlò della sua storia. Mi spiegò che si
sentiva una ragazza, che non sapeva perché era così, ma lo era fin da quando aveva cinque anni; mi disse che sua madre non
voleva capirlo e continuava a rimproverarlo quando parlava al femminile;
mi raccontò che la madre si inteneriva se vedeva un omosessuale, però non accettava
che suo figlio potesse essere diverso. Aveva provato a spiegarglielo, ma lei
aveva detto che lei aveva avuto un figlio maschio e così doveva rimanere.
Da
allora gli ho parlato. Più di una volta. Ho cercato di fargli capire che doveva
essere com’era, e che non doveva cercare mai di essere diverso. Ho cercato di
fargli capire che per una madre è molto difficile da accettare e che doveva darle
tempo. Mi ha risposto che anche per lui era molto difficile.
“Lo capisco.- risposi - E posso
dirti che è difficile anche per me, perché so che vorrei aiutarti ad affrontare
questa situazione, ma non posso farlo. Deve essere uno psicologo ad aiutarti. Ti
consiglio di chiedere a tua madre di portarti dallo psicologo. Lei crederà che
vuoi cambiare, ma non devi cambiare. Devi solo capire esattamente come sei e
come puoi gestire le situazioni che ti si presenteranno. Devi capire che non
c’è niente di male in te, che non sei “sbagliato” come scrivi nei temi. E non
sei “sempre fuori posto”. Tu vali perché sei una persona matura per la tua età.
E il valore non c’entra nulla con il sesso di una persona. Questo è quello che
posso fare per te: farti sapere che io ci sono, che puoi parlare con me, se lo
desideri. Io sarò più tranquilla quando saprò che sei andato dallo psicologo.
Se potessi mi rivolgerei a te al femminile, ma non posso farlo, in classe,
senza coinvolgere anche i tuoi compagni, cosa che non mi sembra opportuna in
questo momento.”
Solo
alla fine della Terza Media sono riuscita a parlare con la madre. Le ho detto
che sapevo che era difficile per lei, ma lo era anche di più per suo figlio, che
aveva bisogno di essere accettato, prima di tutto dai suoi genitori. Le ho
suggerito di portarlo dallo psicologo, perché era importante che anche lei
parlasse con uno psicologo, per farsi aiutare ad affrontare la situazione, per capire che
in fondo, quel figlio era una persona in gamba, una persona intelligente e
sensibile. E che in fondo non era successo niente di grave. Il problema, alla
fine, erano solo gli altri.
Sono
passati alcuni anni. Non so se sono andati dallo psicologo. Spero di sì. Spero
che abbiano trovato una strada poco in salita. Purtroppo non ho fiducia nelle
persone, da questo punto di vista. Spero che tutti si decidano a riflettere e a
capire, per evitare tanta sofferenza, tanto dolore e anche tanti suicidi.
È
ora di cambiare davvero.
I
genitori che leggono questo post ci pensino: quante volte ridono davanti ai
figli perché una ragazza “sembra un maschio”? quante volte mettono in evidenza,
parlando di qualcuno, il fatto che è omosessuale; e quante volte ammiccano, o
bisbigliano “quello lì…mi sa che è un po’….”; quante volte raccontano
barzellette che hanno per soggetto un omosessuale? Il transgender non è
necessariamente un omosessuale (bisogna studiare un po’ per saperlo), ma il
concetto è lo stesso. E quante volte sono gli insegnanti stessi ad avere
difficoltà ad accettare la “diversità” degli alunni?
Peccato
che Leelah Alcorn abbia sprecato così la sua vita. Avrebbe potuto aspettare un
po’. Avrebbe potuto diventare una donna in gamba. Chissà, forse i genitori alla
fine si sarebbero resi conto che nessun Dio può davvero chiedere ai genitori di
rendere infelici i figli. Si sarebbero resi conto che quando vuoi bene a un
figlio lo devi accettare per quello che è, e devi fregartene di quello che può
dire la gente. O forse, se Leelah avesse aspettato, la gente avrebbe studiato e riflettuto un po’ di più e avrebbe capito
che è l’ignoranza quella che crea l’emarginazione.
O
forse no.