Beatrice mi dice: “Non so come si danno i voti”
Gli insegnanti giovani vorrebbero spesso fare la domanda “Come si danno i voti?”, ma, vergognandosi parecchio, perché sono convinti che dovrebbero saperlo fare, non la pongono quasi mai. La grande maggioranza degli insegnanti con più esperienza, poi, mai e poi mai ammetterebbe di avere dei dubbi su come valutare gli alunni. Invece avere dei dubbi è l’unica cosa che ha un senso.
Secondo me i giovani insegnanti non dovrebbero vergognarsi. Dovrebbero farlo quelli che danno i voti senza porsi nessun problema.
Ci sono molti libri sulla valutazione, ma non credo che leggerli serva a molto. Soprattutto perché, quasi sempre, sono scritti da persone che non hanno mai insegnato. Bisognerebbe, invece, rifletterci continuamente, e tanto, tutti, sul problema del voto.
Il voto è solo un numero che viene assegnato al lavoro di uno studente, e che dovrebbe essere la certificazione del livello di conoscenze e competenze raggiunte. Il voto più importante è il 6, perché sul 6 regoliamo tutti gli altri voti, con il criterio di “un po’ di più, di più, molto di più” (o di meno, ovviamente)
Quando diamo un valore al 6, facciamo un grosso errore: lo riempiamo della nostra idea di “sufficienza”.
Quello di cui riempiamo il 6, però, non è uguale per tutti: per me significa una cosa, per il mio collega un’altra, per l’alunno, per il padre, per la madre vuol dire qualcos’altro ancora. Anche i compagni interpretano in modo diverso il voto che hai preso: quello che studia e va bene a scuola lo interpreta come “che voto scarso!”, e per quello che va male a scuola vuol dire “bel voto!”. Dunque non significa nulla di preciso e oggettivo. Uno, nessuno e centomila: il voto è uno, ma ha centomila significati e quindi, nessun vero significato.
Chi ci dice che la nostra idea di “sufficienza” sia giusta? E chi ci dice che la nostra idea di “eccellenza” sia corretta?
Inoltre, il valore del voto cambia, non solo da insegnante a insegnante, da tipo di scuola a tipo di scuola, ma anche da un ordine di scuola ad un altro. Prendiamo la scuola media (da un po’ di tempo chiamata “scuola secondaria di primo grado).
Io, insegnante, do 6 e lo considero un rimprovero, perché voglio fare capire al ragazzo che quello che fa non basta. Ma per un altro alunno posso considerarlo un premio, in considerazione del fatto che ha già dato il massimo.
Tu genitore consideri il 6 una soddisfazione, perché tu da ragazzo prendevi sempre 4. Oppure un voto misero, perché pensi che “solo la sufficienza” sia troppo poco. E così via.
“Sa da 6”, “Sa da 7” sono espressioni assurde. Ma che cosa significa “sapere da 6”, come se fosse la cosa più sicura e obiettiva del mondo?
Alle superiori usano molto di più le valutazioni “oggettive”, a punteggio. Molti sono convinti che il loro modo di valutare sia il massimo dell’oggettività, ma, in realtà, chi ha detto che il punteggio che decido di assegnare ad ogni parte dell’esercizio sia giusto? E, soprattutto, chi ci assicura che l’esatta comprensione di quell’esercizio, al quale diamo il voto “10” corrisponda ad una conoscenza della materia da 10?
È il problema delle prove ministeriali Invalsi: ha senso valutare gli alunni su qualcosa che forse il docente ha deciso di non insegnare, privilegiando qualcosa che ha ritenuto più importante? E chi stabilisce che ciò che ha scelto di inserire chi ha preparato le prove Invalsi (senza avere nessuna conoscenza delle situazioni, delle classi, delle realtà sociali e culturali) sia più giusto di quello che ha scelto l’insegnante (anche in base alla conoscenza di tutti gli alunni della classe e dei loro bisogni didattico-educativi)?. E chi stabilisce che cosa rende effettivamente più preparato un ragazzo di scuola media, quando ogni giorno constatiamo che il successo lavorativo ha una grande quantità di variabili, che vanno ben al di là dei risultati scolastici?
E perché non si dà un punteggio anche alle condizioni emotive, o di salute, dell’alunno mentre svolgeva il compito assegnato? Oppure alla spigliatezza, alla sicurezza, alla velocità, ecc.? E se effettivamente questo extra punteggio fosse inserito, chi ci dice che sia davvero giusto inserirlo?
E perché non inseriamo anche la variabile “condizioni emotive o di salute dell’insegnante mentre corregge”? Perché, siamo onesti, sul voto influiscono un po’anche il nervosismo, la stanchezza, la ripetitività di certe correzioni, la frustrazione del trovare lo stesso errore su dieci compiti diversi e la constatazione che non hanno capito niente di quello che con tanta fatica abbiamo spiegato. Succede che al decimo alunno che ha sbagliato sei furibonda come se avesse fatto lui l’errore, per dieci volte consecutive. E se la sua grafia è pessima e ti costringe a metterci il triplo del tempo e della fatica, o a prendere la lente di ingrandimento per controllare se si tratta di una “a” o di una “o”, o a inclinare il foglio in ogni direzione per vedere se riesci a capire se c’è scritto “”sella” o “nella”, il voto ne risente, in qualche modo. È come trovare un capello in un bel piatto di spaghetti alle vongole.
I ragazzi, inoltre, dovrebbero – almeno - essere sempre al corrente di quello che ogni voto significa. Ma troppo spesso non lo possiamo spiegare perché abbiamo le idee confuse anche noi.
Troppo spesso il voto diventa una piccola o grande arma, gratificazione, vendetta. L’unica che abbiamo e alla quale molti di noi non sanno rinunciare. Ed è anche per questo che molti si rifiutano di concordare il valore dei voti. Finché rimane la possibilità di riempirlo di qualcosa di soggettivo, di personale, che può cambiare a seconda delle necessità, rimane un potere nelle nostre mani. Magro, ma sempre potere.
Perciò, cara Beatrice, è normalissimo che tu non abbia capito come si danno i voti.
L’importante è che tu sappia come non si danno.