Prima Parte
Cara Viviana, hai fatto bene a decidere di sfogarti.
Parlare di un problema è terapeutico, soprattutto perché ti accorgerai che non
sei la sola che deve affrontare una situazione come quella che hai descritto; il
che non risolve, ma consola.
Questo sentirsi “soli soli soli”, “persa, distrutta,
vuota, disperata”, fino a pensare “al suicidio, come ad una liberazione da un
incubo” è il burnout. Come ho già scritto “burnout” significa “bruciato”,
“esaurito”, scoppiato”.
“Chi viene colpito dalla sindrome del burnout si sente
completamente sfinito dal punto di vista fisico ed emotivo, sente di essere
inutile, incapace. Vede tutto nero, si sente fallito, cerca di cambiare lavoro
o si rivolge a uno psichiatra per avere un aiuto farmacologico.”
La tua storia, Viviana, è la storia di molti. Gli
insegnanti vivono spesso situazioni di grave disagio; i dirigenti dovrebbero
farsi carico di quel disagio, ma non lo fanno. Anzi, a volte ne sono i
responsabili.
Gli insegnanti sono sovrastati dalla fatica di affrontare
ogni giorno il disagio di tanti bambini e ragazzi, che a sua volta riflette il
disagio dei genitori, che riflette il disagio di una società senza valori, che
è conseguenza di un sistema economico e sociale impostato sulla corsa al
consumo e all'acquisto che condanna tutti alla frustrazione di
non ottenere mai nulla di definitivo, perché ogni volta che credi di
arrivare al traguardo, il traguardo viene spostato più avanti.
C’è chi riesce a sopportare e chi non ce la fa. Anche
perché ognuno di noi entra e prosegue nella scuola con il suo carico di
problemi, con il carattere che si è formato, con il bagaglio che la vita gli ha
fornito. E nella scuola incontriamo altre persone, altre vite. Chi ha
fortuna e incontra persone equilibrate riesce a resistere. Chi incontra sul suo
cammino persone menefreghiste, scorrette, indifferenti, vendicative rischia di
non farcela e di bruciarsi.
Tu, Viviana, sei entrata nella Scuola con la tua infanzia
di bambina educata a considerare indispensabile fare il proprio dovere a
qualunque costo, per esempio. E questo ti costringe a fare il tuo dovere. Ti
senti in colpa se non lo fai. E non ti senti a posto se ti si chiede di
promuovere chi non lo merita, non riesci a leccare i piedi ai dirigenti, non
riesci ad accettare e a “lasciar vivere” chi non fa il suo dovere. Chi ha un
marcato senso del dovere e lavora in una scuola dove, per esempio, il dirigente
questo senso del dovere non ce l’ha e non lo capisce, si ribella, ed è
destinato ad andare incontro al mobbing. Nella Scuola, come in qualsiasi altro
luogo di lavoro dipendente. Ma in un luogo di lavoro privato i colleghi hanno
paura perché sanno di poter essere licenziati. Nella Scuola, dove il dirigente
non può licenziarti, la paura dei colleghi è ridicola e colpevole. Nella Scuola
i colleghi che assistono a episodi di mobbing tacciono solo per paura di
perdere qualche favore (ma perché chiedono al dirigente dei favori?) o per non
essere coinvolti e per "non avere grane".
Per gli insegnanti è più difficile, perché, come dice Vittorio
Lodolo D'Oria, “Gli insegnanti rientrano a pieno titolo tra le cosiddette helping
profession", e "vivono una tipologia di rapporto con l'utente
unica, che si protrae tutti i giorni e più ore al giorno, per nove mesi
all'anno e per cicli di tre o cinque anni". Nessun altro lavoro ha un
rapporto così stretto e di responsabilità con gli utenti.
Insegnare a ragazzi, spesso viziati, impreparati,
iperprotetti, è già molto difficile. Essere controllati ogni secondo da
ventotto paia di occhi è snervante: l'intensità di questa situazione, nella
consapevolezza che dobbiamo essere dei modelli di correttezza, non si può
paragonare alle altre professioni. Essere guardati con stupore e
disapprovazione ogni volta che si chiede a un ragazzo di fare il suo dovere è frustrante.
Sopportare la presunzione e l’aggressività di certi genitori, cercando di
mantenere la professionalità che ci viene richiesta, comporta un grande sforzo
di autocontrollo. Convivere con colleghi che non solo non fanno il loro dovere,
ma che rovinano anche il nostro lavoro è davvero faticoso. E quando a tutto
questo si aggiunge il mobbing da parte di un dirigente al quale non va bene che
tu non ti pieghi al suo volere autoritario, alle sue scorrettezze o ai suoi
abusi di potere, finisci per non riuscire più a lavorare e a subire tutto con
disperazione. Questo è il burnout. E devi curare il tuo male di vivere con gli
psicofarmaci. E oltretutto devi farlo anche di nascosto perché “se lo vengono a
sapere” – magari proprio quelli che ti hanno spinto alla depressione – diranno
che ti impasticchi, che non dovrebbero lasciarti insegnare. Come se gli
psicofarmaci fossero una droga per sballare.
Ma di chi è la colpa di questa situazione? Se tanti –
troppi – insegnanti finiscono nel vortice della depressione o del disagio, la
Scuola non va, evidentemente. È troppo faticosa, frustrante, usurante,
evidentemente. E allora?
Il discorso è lunghissimo.
Bisognerebbe ammettere all'insegnamento solo le
persone idonee a sopportare lo stress? Fare una visita iniziale per verificare
la capacità di resistere alle difficoltà? Bisognerebbe richiedere una “sana e
robusta costituzione”? O bisognerebbe invece fare in modo che il luogo di
lavoro – tutti e non solo l'ambiente scolastico – fosse vivibile da tutti i
punti di vista?
La colpa è dello Stato che non tutela gli insegnanti, che
li fa lavorare in condizioni difficili, che li lascia senza aiuto, che permette
ai dirigenti scolastici di mobbizzare i lavoratori, che fa una legge per la
tutela della salute dei lavoratori ma non la fa applicare, che non controlla
l’operato dei dirigenti e lo stato di salute degli insegnanti.
Ma, per me, una grossa responsabilità è imputabile agli
insegnanti che assistono al massacro di un collega e si
voltano dall'altra parte.
Scrivi: “Ho lottato dentro la scuola, perché ritenevo un
mio diritto stare lì e non capivo perché mi trattavano male, perché dovevo
andarmene! Perché ... se facevo il mio dovere? Ho subito ingiustizie pesanti e
visto concessioni a colleghi che hanno dell'incredibile. Dopo 25 anni nella
stessa scuola, speri che ti rispettino, ti stimino per l'esperienza che hai
acquisito!”
Ti capisco: fai il tuo dovere e vorresti essere lasciata
lavorare. E come è possibile che questo non avvenga?
Un dirigente che dirige la scuola come se fosse casa sua,
per esempio, pretende di fare quello che vuole e di avere ubbidienza
incondizionata. È il dirigente che comanda su tutto, che blocca
ogni iniziativa, che fa quello che vuole, anche ai limiti della legalità, e
pretende che i docenti eseguano senza fiatare. Se gli capita un insegnante che
non ci sta e protesta, ecco che parte la persecuzione: l’insegnante “ribelle”,
“che parla troppo” viene spostato nei corsi più difficili, viene fatto tacere o
deriso; a lui si negano permessi che ad altri sono concessi.
Ma c’è una riflessione importante da fare: tutto questo
può accadere perché gli insegnanti – gli altri, i colleghi- lo permettono.
La Scuola, che dovrebbe essere il luogo dove la
solidarietà regna sovrana (perché dobbiamo insegnarla ai ragazzi), in realtà è
il luogo dove la solidarietà praticamente non esiste. Se un insegnante si trova
in difficoltà e viene escluso o mortificato, o se il dirigente gli fa una
palese ingiustizia, tutti gli altri che cosa fanno? Si
voltano dall'altra parte. Cercano di convincersi che non li
riguarda: “è una cosa fra voi”, “dovresti cercare di lasciar perdere”,
“sai che è fatto così, perché ti impunti?”. La colpa viene
data all'insegnante o, al massimo, metà e metà. Nessuno prende
posizione, perché è più facile fare come gli struzzi o come i mafiosi: fingere
di non vedere. È più sicuro lavarsene le mani. D’altra parte quei colleghi
tollerano il personale di segreteria che risponde loro sgarbatamente, o che
sbaglia perché lavora in modo superficiale; tacciono quando un collega offende
i ragazzi, o esce a fumare lasciando la classe scoperta, o non fa lezione,
convinti che non sia compito loro; i colleghi, non solo non si
oppongono, ma assecondano il dirigente che fa battute
sarcastiche sull'insegnante preso di mira e ridono di quelle
battute, fingendo che siano battute bonarie, per non prendere posizione. Perché
gli insegnanti non sono coraggiosi, di solito. Sono abituati a fare il loro
dovere e a sentirsi in colpa perché da troppo tempo sono accusati di essere dei
fannulloni e di guadagnare anche troppo. Ed è per questo che vengono trattati
male. Tanto - lo sanno tutti - non reagiranno.
Cara Viviana, non ti dirò che forse ti sei meritata i
rimproveri, perché dici che sei laureata, hai passato un concorso, e non fai
cenno a problemi di disciplina; non ti dirò che avresti dovuto cambiare scuola
molto prima, perché so che è come per le donne che sposano un alcolista o un
violento: “credi sempre che cambierà”; non ti dirò che il tuo carattere fragile
probabilmente non era adatto a sostenere le fatiche dell’insegnamento, perché
non potevi sapere come sarebbe stato.
Ti dico invece che devi cercare di riprendere le redini
della tua vita. Ti stai curando, ma non basta se non decidi con convinzione che
devi reagire.
Guarda i ragazzi con altri occhi: ti accorgerai che non tutti i
ragazzi sono menefreghisti e maleducati; non tutti i colleghi se ne lavano le
mani, non tutti i genitori sono prepotenti. Dimentica quello che è stato, anche se è difficile, e
prosegui il cammino. Ti auguro di ritrovare la strada.
Fammi sapere!